Coimbra ventiquattro anni dopo, la profezia (meglio dire gufata) dell’amico Cip e … la ruota della sfortuna!

Coimbra ventiquattro anni dopo, la profezia (meglio dire gufata) dell’amico Cip e … la ruota della sfortuna!

Eravamo ancora in pieno inverno quest’anno, quando – sfogliando svogliatamente il calendario delle prime gare di Triathlon in presentazione per la stagione 2024 – mi imbatto quasi per caso nel Campionato Europeo Middle Distance di Coimbra in Portogallo. Un 70.3 a Coimbra, ripeto un paio di volte tra me e me, ancora incredulo.

In quel momento ero alle prese col mio infortunio e non potevo ancora allenarmi bene: solo rinforzo e riabilitazione. Però quella parola – Coimbra – mi aveva risvegliato mille emozioni. E mi sono detto: semmai dovessi tornare a gareggiare, voglio andarci all’europeo di Coimbra, a costo di fare una figuraccia.

Erano passati 24 anni, tantissimi, da quando nell’estate del 2000 ero stato selezionato per un Workshop alla storica Università di Coimbra in Portogallo. Due neolaureati in giurisprudenza a rappresentare ciascuna nazione, se ben ricordo. L’argomento era delicato all’epoca e lo sarebbe anche oggi: i diritti umani. Allora era da poco conclusa l’operazione NATO con i bombardamenti in Serbia, che assillava le coscienze degli europei e non solo; oggi quei temi sarebbero ancor più di attualità, viste le atrocità a cui stiamo assistendo.

Nell’estate del 2000 ero partito per Coimbra con la spavalderia e la presunzione tipica del giovane che vuol prendersi tutto: a quell’età pensavo davvero di poter dire la mia in occasioni così importanti e che le mie idee sarebbero state ascoltate. E magari avrebbero cambiato qualcosa nel mondo. Da giovani si è così; si deve essere così, perché il giovane percepisce il mondo che verrà come il suo. A distanza di 24 anni non posso che assistere alle vicende del mondo con animo diverso e più disincantato.

La città di Coimbra fu una magnifica rivelazione. Arroccata sulla collina, ornata di palazzi meravigliosi e impreziosita da una Università storica e prestigiosa. Ai suoi piedi il fiume Mondego, che scorreva lento e placido. Passai un paio di settimane a Coimbra seguendo i vari workshop assieme ai giovani colleghi giuristi stranieri, con la possibilità di parlare inglese (lingua ufficiale del corso), ma anche spagnolo e francese. Mi innamorai di quella città in riva al fiume, per poi perderne le tracce nel corso degli anni a venire.

Qualche mese fa, come detto, scopro che proprio a Coimbra si sarebbe tenuto, il 22 giugno, l’European Championship di Triathlon Middle Distance:  1.9 km di nuoto nel fiume Mondego, 90km di bici in città e nelle campagne e infine la mezza maratona lungo le rive del fiume e nel magnifico parco nazionale Choupal.

A mano a mano che in inverno il mio tendine rispondeva positivamente agli stimoli, pensavo che forse si poteva tentare. Poi il primo 70.3 di “prova” ad aprile all’Irondelta di primavera e il test più probante del Challenge Cesenatico, a saggiare la tenuta della gamba.

Intanto a Coimbra mi ero iscritto, un’ora prima che chiudessero le liste, insieme con Serena. Senza ambizioni di tempi perché dopo un anno da infortunato era già un miracolo esserci, ma con la grande voglia di ritrovare, dopo 24 anni, quella bella città e viverla con un’esperienza completamente diversa.

Alla partenza dall’aeroporto di Pisa mi sono sorti i primi dubbi: anzitutto la bicicletta incappucciata in quel grande valigione arriverà integra? Ma soprattutto, Coimbra mi apparirà ancora così bella come nei lontani ricordi? Le aspettative sono state subito soddisfatte: Coimbra era ed è splendida, per di più agghindata per le feste, ossia preparata ad ospitare il grande evento multisport. Non solo la triplice su lunga distanza, ma anche duathlon standard, duathlon cross, triathlon cross, aquabike, mezza maratona, maratona e una night swim nel fiume. Insomma, di tutto di più. Atleti da tutta Europa per le vie della città e lungo il fiume, chi per gareggiare e chi per testare i percorsi in preparazione della propria personale sfida.

Dopo esserci sistemati e sbrigate le formalità di rito in hotel, decido di provare subito il percorso bici del 70.3, anche perché ho l’ansia di verificare se la mia bici è ancora tutta intera dopo i maltrattamenti del viaggio. Apro con cura il borsone portabici e scarto la crono con cautela dalle protezioni che la soffocano. I pezzi ci sono tutti. La metto in strada e pedalo per pochi minuti, raggiungendo la “transition zone” dove lo staff dell’evento si sta preparando alle gare di giornata. Blocco la prima faccia che mi trasmette simpatia e chiedo come poter provare il percorso bike del 70.3; gentile, il ragazzo dello staff mi fornisce un po’ di dritte e mi consiglia le strade meno trafficate e pericolose. Mentre ancora mi sta dando le ultime indicazioni, sentiamo uno strano sibilo. Lui mi guarda e poi abbassa gli occhi verso la mia ruota anteriore. Seguo il suo sguardo e incoccio la mia ruota a terra. Avevo forato. Non ci potevo credere. E come potevo fare? Io non so cambiare una ruota, non conosco la bici. La so pedalare e neppure tanto bene. Per me gli ingranaggi della bici sono un mistero, che me la rendono ancor più attraente. Ho sempre pensato che se dovessi conoscerla meglio, non amerei così tanto la bicicletta.

Quindi, quando foro vado dal meccanico, così come vado dal medico quando sto male: mi affido ai tecnici insomma.

Lo faccio anche a Coimbra e, non lontano dal campo gara, trovo una officina meccanica convenzionata con l’evento. Il bravo meccanico di turno – con i suoi strumenti magici – mi cambia la camera d’aria in men che non si dica. Lo guardo stupefatto e mi convinco che io non ne sarò mai capace. Esco felice dalla officina e mi faccio il mio bel giro di prova, facendomi sfuggire un’infelice battuta col meccanico: “beh meglio forare adesso che in gara”. Lui accenna a un sorriso non del tutto convinto e in quel momento un brivido mi percorre la schiena; avrei dovuto interpretarlo meglio quel segnale.

Con Serena abbiamo anche provato il nuoto nel fiume Mondego, che ci ha accolto al tramonto nelle sue acque fresche. Siamo usciti dall’acqua consapevoli di due cose: che la frazione swim era fattibile e che nei giorni a seguire non avrei avuto alcun problema ad andare in bagno. Il livello di batteri incamerati in quei pochi minuti di nuotata mi sarebbe stato più che sufficiente per superare la mia proverbiale stitichezza. E così è stato.

Intanto la città di Coimbra ha svelato le sue bellezze anche a Serena, che se ne è presto innamorata come era successo a me un quarto di secolo prima.

Anche allora, nell’estate del 2000, si giocava l’europeo di calcio (in Francia). Una bella Italia lo perse in finale con i francesi solo ai tempi supplementari. Meritando tuttavia gli applausi. Anche oggi c’è l’europeo di calcio, ma questa Nazionale non mi pare proprio paragonabile a quella di allora. Spero tanto di sbagliarmi, ma con Serena soffriamo nel vedere gli azzurri surclassati dalle furie rosse spagnole.

Si arriva al giorno della gara e dopo un’abbondante colazione andiamo fiduciosi al campo gara e ci prepariamo per la frazione swim con partenza rolling start. Mi piazzo tra le prime linee perché vorrei tenere un buon ritmo: per una volta decido di fare una gara in spinta, nei limiti delle mie possibilità. Confido che il body azzurro della Nazionale sia per me uno stimolo a dare qualcosa in più. Completo la frazione di nuoto in 33 minuti e per me va bene. Spingo la bici all’uscita della zona cambio e quando faccio per saltare in sella sento lo stesso sibilo di due giorni addietro, esattamente nello stesso punto. Guardo immediatamente la ruota davanti ed è a posto, fortunatamente. Monto in sella, ma sento sotto di me l’asfalto duro come il marmo. Smonto e guardo con orrore la ruota posteriore a terra. Non ci credo. Ho riforato nello stesso punto, ma stavolta la ruota posteriore. Urlo, impreco e chiedo aiuto a casaccio. Nessuno mi può aiutare, pena la mia squalifica. Il regolamento parla chiaro e i giudici di gara sono lì accanto a me a guardare che io lo rispetti.

Non ho nulla per cambiare la ruota, penso. E comunque non lo saprei fare. In quel momento di sconforto penso al ritiro. Poi guardo la mia bici e scopro quel vano portaoggetti che poche settimane prima il mio amico Federico (detto Cip … perché fa sempre coppia con Ciop) mi aveva fatto notare. In verità mi aveva preso in giro perché non avevo la minima idea di che cosa fosse o contenesse, probabilmente qualche attrezzo per la manutenzione avevo detto in modo poco convinto. Ma in qualche modo quella profezia – o se vogliamo quella gufata di Federico – mi aveva acceso una luce. Apro il vano e trovo una camera d’aria e una mini pompetta, niente caccia-copertoni. Non avendo la minima idea di come iniziare, provo a usare le dita come caccia-copertoni e mi taglio dappertutto.  Con un po’ di fortuna la camera d’aria bucata viene via e riesco a inserire la nuova, ma per rimettere su il copertone senza attrezzi prima prego i Santi, poi li impreco e alla fine finisco per distruggermi le mani. Ma la battaglia è vinta. Con la mini pompa faccio il possibile per far andare a pressione la ruota e riparto. Alla fine scoprirò che i 90km li ho fatti con 2 bar … invece delle 9 rituali.

Ammetto che il primo pensiero è stato di ritirarmi, ma non potevo farlo senza prima provarci; se insegno ai miei figli che non si deve mollare mai, ritirandomi avrei dato loro un esempio pessimo: i figli ascoltano poco i genitori, ma li osservano attentamente e severamente. Gli avrei dato un esempio pessimo se avessi mollato solo perché ero ultimo.

Effettivamente ero ultimo. Anzi ultimissimo, perché mentre lottavo con le camere d’aria nel frattempo erano usciti tutti dall’acqua e dalla T1. Incomincio a pedalare spingendo al massimo la bici che dietro si afflosciava per la bassa pressione. Decido di darmi un obiettivo che non sia di tempo, visto che ormai ero stato fermo 27 minuti. Facile: non arrivare ultimo. Parto e incomincio a recuperare qualche donna, poi qualche maschio non proprio giovanissimo e alla fine dei 90 km anche qualche atleta che – a occhio – poteva essermi coetaneo o quasi.

Scendo di sella e le gambe sono a pezzi. Mi tiro su di morale pensando che adesso nella run me la giocavo alla pari: le mie scarpe non erano sgonfie. Corro e provo a riprendere chi mi trovo davanti, uno a uno piano piano, cercando di non esagerare perché a quel punto ci tenevo a finire la gara.

La corsa si fa dura per il caldo e il terreno sterrato, ma alla fine riesco anche a godermi gli ultimi chilometri lungo il fiume Mondego dove i tifosi spingono gli atleti a portare a termine la gara. Taglio la finish line e, in serata, scoprirò di non essere ultimo: 22^ di categoria su 38, con la dignità in salvo. Posso tornare a casa e raccontare ai miei ragazzi che nelle classifiche ufficiali rimarrà un tempo da schifo, ma quel risultato è stato cercato e ottenuto con tenacia.

Ma soprattutto spiegherò ai miei figli che per andare in bicicletta bisogna saper cambiare una camera d’aria, possibilmente in meno di 27 minuti!

Testo e immagini a cura di Evangelista Basile

Serena Rossi