Ecco altre news dall’Africa del nostro Beppe Soriani
La Repubblica Centroafricana dove mi trovo in questo momento è veramente un paese disastrato in modo totale. Ci sono scontri tra gruppi di etnie diverse e scontri tra gruppi di religioni diverse. Se sei musulmano e ti trovi in una zona controllata dai cristiani vieni massacrato. E viceversa. Il servizio sanitario nazionale è inesistente. Inoltre a seconda dell’intensità degli scontri si osservano degli spostamenti in massa di decine di migliaia di persone che cercano di raggiungere zone più tranquille. Causando un aumento di epidemie come il colera.
Vi racconto come è la nostra giornata “tipo”. Si inizia, ahimé, con la sveglia alle sei del mattino…. Che sofferenza! Siamo vicini all’equatore quindi fa giorno presto (e con la luce arriva anche il caldo umido: 35-40 gradi…. da voi dovrebbero esserci circa 10-12 gradi, giusto?). Colazione e riunione veloce con gli altri componenti dell’equipe per decidere il programma giornaliero. La lingua ufficiale è il francese. Poi ognuno se ne va verso il proprio posto di lavoro. L’ospedale non è lontano, circa 5 minuti di jeep. Inizio con il giro clinico nel reparto di chirurgia, per vedere il decorso degli operati e valutare i nuovi arrivati. Dopo vado in sala operatoria. Dove si entra senza mai sapere quando finirà la lista degli interventi. Lì ti aspettano donne gravide in attesa di fare il cesareo, ossa fratturate da ingessare, ferite da arma da fuoco, ascessi etc. Tutte patologie di interesse chirurgico d’urgenza. Per esempio una
settimana fa sono tornato a casa alle 11 la sera per un bimbo di 4 anni con ustioni impressionanti su circa il 70% del corpo. Pazzesco. E’ stato classificato come incidente domestico, purtroppo abbastanza frequente da queste parti. E’ gravissimo. Non penso proprio che ce la farà. Avrebbe poche probabilità di sopravvivere pure se fosse in un ospedale europeo, figuriamoci nella foresta sperduta dell’Africa.
In questi ultimi giorni ho avuto diverse urgenze da arma da fuoco. Civili feriti da pallottola con ferite e fratture varie. Qualche giorno fa ho dovuto operare un ragazzo con una ferita all’addome ed un buco nell’intestino causato da scoppio di granata.
I momenti critici nelle urgenze sono quando hai un massiccio arrivo di feriti. Da quando sono qui non è ancora successo per fortuna…. Comunque devi mollare tutto (sempre che tu non sia a metà di un intervento chirurgico) e metterti a fare il “triage”. Il triage è fatica e dolore immensi. Ti fa male dentro. Si tratta di una metodica purtroppo necessaria quanto atroce. Consiste nel fare una veloce valutazione della gravità delle ferite e classificare i pazienti a seconda delle loro condizioni. Con tanto di bollino di colore diverso da appiccicare sulla maglietta. Quando ce l’hanno. Ci sono quelli non urgenti che possono aspettare a cui spetta il bollino verde. Altri invece con lesioni gravi che non possono aspettare e ricevono quindi il bollino rosso. E poi ci sono quelli gravissimi. Talmente gravi per cui non vale la pena impegnare tempo prezioso e risorse molto limitate per cercare di salvarli. Morirebbero comunque. Si cerca solo di non
farli soffrire. In un manuale di chirurgia di guerra ho trovato questa frase: “leave to die in dignity”, lasciare morire dignitosamente. Agghiacciante. A loro dai il bollino nero. E lì ti arriva la mazzata. Un bel pugno nello stomaco che ti porti dietro per ore, per giorni anche. L’ho provato qualche volta, purtroppo, in altre missioni. Ti viene da chiederti: “Ma chi sono io per poter decidere chi deve avere una possibilità di sopravvivere e chi no?”. Poi però pensi che in questo posto sperduto sei l’unico chirurgo e tocca a te tale ingrato compito. E spesso la notte si ha difficoltà ad addormentarsi.
Come se non bastasse, oltre alla guerra, alla povertà e alle malattie infettive in questa regione ci sono tantissimi serpenti. E soprattutto una particolare specie di vipera che vive solo in questa zona. Qui la chiamano Baraka. Ed è mortale. Ogni giorno arrivano due o tre persone con “morsure de serpent”. Se non gli fai il siero entro poche ore muoiono. Siamo abbastanza preoccupati perchè l’unico laboratorio che produce il siero efficace per questo tipo di veleno si trova in Francia ed ha annunciato che da Gennaio 2014 smetterà di produrlo. E anche qui chi paga il prezzo più alto sono proprio i bambini.
Come vi ho scritto nell’altra letterina la pediatria è il reparto più grande. Ogni mattina, durante il giro clinico per visitare i bimbi “chirurgici” faccio una distribuzione generale di caramelle e piccoli giocattolini, doverosamente infilati in valigia dalla mia Mamma prima della partenza. Non capisco come mai ma ogni giorno trovo sempre più bambini ad aspettare “les bonbons”. Mi sa che s’è sparsa la voce. Comunque sia bambini che adulti sono tutti molto gentili con noi “dottori stranieri”. In ospedale hanno sempre il sorriso sulle labbra. Tutti vogliono stringerti la mano e dirti “Bonjour” (che probabilmente è l’unica parola in francese che sanno), giusto per avere un contatto con te. Forse per dirci a loro modo “grazie di essere qui”.
La regola numero uno quando si lavora per organizzazioni umanitarie tipo Medici Senza Frontiere è “adattarsi”. Significa fare il proprio lavoro spesso in condizioni disagiate e con materiale molto limitato. La sala operatoria dove trascorro molte ore della mia giornata è abbastanza ben attrezzata per essere in un luogo sperduto di un paese in via di sviluppo. Mancano comunque oggetti veramente essenziali. Un esempio? La lampada. Quella caratteristica di tutte le sale operatorie, la famosa “scialitica”. C’è ma è rotta da anni. Quindi hai due possibilità: o sposti il letto operatorio vicino alla finestra (il giorno) oppure operi con la lampada frontale tipo minatore (la sera durante le urgenze). Importante poi è sapersi adattare alle quasi inesistenti condizioni igieniche. In sala operatoria ad esempio c’è il grosso problema degli animali. Tra mosche, formiche, piattoloni e lucertole sembra di essere allo zoo. Stamani ho fatto un cesareo
(un bel bimbone di 3 chili e mezzo!) in compagnia di due belle formiche che se ne andavano a giro sui teli appoggiati sulla paziente. Se succede in Italia finisci sul giornale. Qui dopo qualche giorno non ci fai più caso.
Dopo un’intensa giornata di lavoro, spesso riusciamo a trovarci tutti a cena per mangiare assieme e fare due chiacchere. In francese o in inglese a seconda dell’interlocutore. E’ bella l’atmosfera internazionale che si respira in missione. Trovi spesso gente che ha fatto esperienze incredibili. La logista ad esempio ha fatto per 10 anni lo skipper su barche a vela di 20 metri nell’oceano pacifico (devo dire che un po’ li ho stupiti anche io con i racconti dell’Antartide….). Raramente si parla di lavoro. Gli argomenti sono quasi sempre soft. Per ridere un po’ e cercare di smorzare la tensione che ti sei portato dentro per tutta la giornata. E se poi ti trovi davanti ad un piatto di pasta al forno e ad una bella crostata preparati dal sottoscritto, accompagnati da due bottiglie di Chianti, come è successo domenica sera, beh un po’ il sorriso ti ritorna.
In allegato troverete due foto: nella prima c’è Martine, 4 anni, a cui abbiamo dovuto amputare il braccio in quanto letteralmente “esploso” da un proiettile. Nella seconda un gruppo di bimbi che vivono in una capanna di fianco all’ospedale con i quali abbiamo un appuntamento fisso alle 7.15 del mattino per un salutino.
Saluti africani